10 dicembre, 2007

Un attimo condiviso, una vita per rifletterci

Sì, ho conosciuto una donna dai capelli rossi, non so' perché.
Un fuoco di legna, la carne sfrigolante su piastre improvvisate, solo la luce delle fiamme, indecisa, a scolpire le nette eppure inafferrabili forme dei ragazzi e ragazze seduti intorno al falò. Parlavano di tante cose, semplici per lo più, e belle della sincerità di quegli anni, forse un lustro fa, si aveva dai ventuno ai venticinque anni. Si era vergini: più che vergini, si viveva il momento platonico, ben raro e prezioso. Bene, vino e birra abbondavano, perché non avrei lasciato che nessuna serata morisse per la morte di vino, birra o legna.

Ecco, il vino e la birra avevano benedetto senza riserve le intenzioni degli astanti, e forse sull’onda di quelle ebbrezze che mi permisi di mettere becco in una conversazione sull’arte. Si trattava del Romanico del milletrecento, e dissi la mia sul gotico-romanico del Duomo di Milano, forte dell’alcool che cantava, e degli studi. Così finii ad approfondire il concetto con lei su una panchina lontano da tutti. Avrei potuto baciarla, e l’avrei voluto. Ma non potevo: una promessa mi legava ad un'altra donna. E così passammo qui momenti solitari seduti su d’una panchina sotto alberi fintamente disinteressati, senza che potessi fare ciò che avrei voluto: benedire quell’incontro bellissimo con un bacio.

E passò del tempo, e ancora ci fu un falò misterioso a suo modo, e non mancarono ancora ne’ vino ne’ birra ne’ fiamme di legna. E ancora ella ed io ci trovammo su quella panchina. Nessun impegno però legava in quel momento il mio cuore: e in nome del bene del mondo tutto, e di quanto stupenda ella fosse, la baciai.

Non baciai solo una ragazza ma baciai un mio amore in erba, una speranza senza un nome preciso, un afflato.

Poi passò del tempo. E la vita mi fece cadere in un'assassina disperazione.
Fui risparmiato nell'urto, per caso, per volere di Dio o per semplice meccanica, per un fine remoto, o per una fluttuazione quantistica del nulla, come mi disse una volta un amico.

Ospedale: non sapevo se sperare che tutti se ne andassero o che altri arrivassero. Ero lì con me stesso a pensare che ero vivo, per Dio!

Poi, al secondo o terzo giorno, arrivò la ragazza dai capelli rossi.

Ebbe un gesto di gentilezza: si accovacciò vicino al lato destro del mio letto, letto sul quale il mio gomito giaceva con me, spezzato, e io la contemplai, ardendo per una promessa impotente.

Ella si accovacciò, e mi disse senza ellissi ne’ asianismi, per la cui assenza provo ancora grande rispetto, che aveva ritrovato un buon rapporto con l’uomo che amava o cui voleva bene in precedenza, non saprei dire ora, e che quindi fra me e lei qualsiasi progetto era da considerarsi inattuabile.

Ella disse solo le prime parole, il resto lo aggiunsi io per estrapolazione lineare. Le dissi che andava tutto bene, che non doveva preoccuparsi, che non c’era problema, che era meglio per tutti che ella fosse felice.

In fondo era bello: quando si sfascia il meccanismo, tanto vale che non rimanga nemmeno una rotella dritta. Avevo il mio ospedale, la mia moto distrutta, una storia d'amore finita da poco e un'altra che nemmeno era riuscita a cominciare, dopotutto.

E le visite di amici e conoscenti si diradarono: infine sarei rimasto vivo senza riserve. Il mio braccio ed io uscimmo dall’ospedale, e francamente, cercai invano di dimenticarmi la cosa, ma naturalmente, non fu così mai, nei miei pensieri che prediligono ostinatamente il "se…" all’ "è".

Poi la rividi e rividi la sua anima, almeno così credo, e tristemente ne baciai il travaglio. Ancora lo faccio ogni giorno, una maledizione o un bacio quotidiano di Dio, come un doloroso bel tramonto.

Laggiù nella mia anima riderò e soffrirò per sempre di quei baci e di quell’anima che ho avuto la fortuna di sfiorare.

Di fatto, qualsiasi cosa sia detta, quella parte di gioia e sofferenza fanno di me quello fu deciso io sia, finanche ora che sto scrivendo.

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