16 novembre, 2011

Ridiamoci sopra!

Diciotto anni di servizio quasi inappuntabile e mai una licenza di più di un mese scarso. Come giusto, quando si dorme non si smette di combattere. L’esempio di stanotte è probante.

Raccontare i propri sogni è tanto gratificante per chi ne è stato protagonista, quanto noioso per chi ascolta; ma ho il bisogno di scriverne, nessuno me ne abbia, e non leggerne è una buona soluzione. Al termine di questo noioso riportare di fatti mai avvenuti, il lettore più furbo può trovare le mie acute conclusioni: potete farvi una risata a denti stretti laggiù, senza sorbirvi tutta la trafila.

Questa notte il sogno ha preso la forma di uno strano fronte orientale, in chiave di conflitto asimmetrico, moderno. Ero bardato come un soldato americano, analogo a quelli dei film e degli spezzoni ai telegiornali, piccole macchiette umane coperte di tecnologia e di equipaggiamenti da ventimila € tra fucili senzienti visori notturni guanti occhiali a specchio da fotomodello pistola camelbak maschera radio elmetto in kevlar ginocchiere gomitiere e una mimetica che fa tendenza, ridotto o eletto ad icona marciante e un po’ pacchiana di una religione prepotente, quella della macchina iperbellica totale. Fichissimo, insomma, come questo.

Ad ogni buon conto, mi aggiravo, alla maniera onirica, per una base avanzata, opulenta in fatto di materiale di ogni tipo, e vuota di persone con le quali interagire.
La prima tappa è stata in fureria, a prendere qualche ulteriore orpello, ed incomprensibili informazioni su quello che avrei dovuto effettivamente fare e dove andare. Quattro parole con il soldato (una donna) preposta all’uopo, e qualche altezzosa battuta soldatesca, mutuata dai film retorici e poco credibili che mi sorbisco da sveglio. Infine, la mia solita prosopopea, a dileggiare il rischio di morire, per dimostrare che io ero inevitabilmente differente, in una qualche migliore maniera, della carne da cannone ammassata laggiù.

Sì, talora i miei sogni raggiungono precisione da alta definizione televisiva, nelle immagini e nei dialoghi, salvo poi ritornare al rigore onirico, composto di salti temporali e spaziali, e soprattutto semantici. In effetti, me ne ero andato già due o tre volte da quella strana fureria, più simile ad un banco informazioni bancario, ogni volta provando un dialogo diverso, il cui senso era sempre lo stesso: io qui se ci crepo sono contento, non come voi altri idioti che non vedete l’ora di tornare ‘dalle vostre Mary Jane’, parafrasando un celebre dialogo cinematografico. Perché non ho nulla cui tornare, dicevo, e quindi tutto sommato io, che non ho nulla, sto meglio di voi altri che qualcosa, dopo tutto, avete, in un altro posto, se non altro, noiosi cretini.

Ma di rado sono pietoso con me stesso, in sogno mai, e all’ennesima compiaciuta reiterazione del mio prode discorso, notavo che una ragazza faceva il proprio ingresso sulla scena.
L’aria stanca, di chi ha fatto fatica e sa che è probabile ne dovrà fare ancora, passava di là per disbrigare una qualche faccenda. Indossava un casco tecnico da pilota, e solo allora mi sono reso conto che per quanto mi riguardava ero un soldato semplice, l’ultimo della fila e della lista, un nome su una tomba già scavata a fianco a mille altre identiche, alla faccia dei miei tronfi sproloqui. Anche se in sogno, l’ossessione bellica mi insegnava che doveva trattarsi di un pilota, dato il casco, e di un ufficiale, dato che i piloti di caccia in genere lo sono.

Come fossi davanti ad una sorta di divinità, nel mondo in cui mi trovavo: eravamo gerarchicamente e operativamente distanti quanto il conto in banca e le abitudini dell’homo sapiens sapiens italiano e quelle di un calciatore o di una rock star, notoriamente di una specie diversa.

Ho riconosciuto immediatamente la ragazza: la conobbi, nel mondo non-onirico, a sedici anni, al mare. S’intessé una complessa ragnatela sentimentale dalla quale credo nessuno è uscito assolutamente indenne, o almeno io.

Bloccato, non avevo il coraggio né di salutarla né di avvicinarmi. Mi sono limitato a fissarla, sperando mi vedesse, e così è stato. Risolto il problema del Primo Contatto, sbrigati i salamelecchi obbligatori, le chiesi se pilotasse (banali) elicotteri. Mi rispose che, no, pilotava F-16 (un esempio). Come dire, traslando un significato per me ovvio, che oltre ad essere ben al di sotto anche solo al diritto di parlarle, in quanto pilota ed ufficiale, pilotava un caccia multiruolo che amo per le forme aggraziate, le curve della fusoliera priva di spigoli vivi e, per chi ama questo genere di prodotti tecnologici, anche per la particolare sensualità.

Molto a disagio scambiai qualche parola di prammatica, rendendomi conto che non c’era molto da dire, che con quella persona quel che v’era da scambiare era stato scambiato illo tempore: adesso, semplicemente, io sarei andato a strisciare nel fango, fino all’anelato decesso, e lei a chiudere eleganti immelmann nel cielo perfetto sopra le nuvole: e se l’era meritato con le azioni, quanto io mi ero meritato il fango a parole. Una brutta sensazione.

Congedatomi dal pilota, non senza acuti rimpianti e una familiare sensazione di fallimento totale, e preso atto della faccenda nel suo complesso e della mia effettiva condizione, mi risolsi di espletare i miei compiti di fanteria quanto meno al meglio delle mie possibilità.

Inanellai una serie di clamorosi insuccessi. Al banco riparazioni pistole, ricevetti un cicchetto indimenticabile quando dimostrai di avere un colpo, per di più danneggiato, incamerato nella mia Beretta d’ordinanza davanti al sottufficiale. Me ne andai di lì con la pistola smontata che non sapevo come rimettere insieme, la coda fra le gambe.

In seconda istanza, mi trovai impegnato nel piantare dell’esplosivo in filari simili a quelli di un vitigno, attività oniricamente pregna quanto priva di alcuna utilità nel mondo reale. Per strani meccanismi, il filare di mia competenza era già occupato da un soldato che ne sapeva più di me, altri liberi non ve n’erano, e l’ufficiale che controllava il nostro lavoro pareva infischiarsene del sottoscritto, che con l’esplosivo in mano si aggirava all'intorno a guisa d'idiota.

Mi fu poi affidato l’incarico di scavare una sorta di fossa enorme. Anche qui combinai non so quale disastro. Fummo in seguito attaccati, noi privi di fucili, da avversa fazione. Un commilitone sembrava non avere alcuna paura, e giocherellava, facendo cose possibili solo in sogno, fino a che fu falciato da una raffica. Scoprii che, a dispetto delle mie precedenti dichiarazioni in fureria, non lo invidiavo affatto, e mi rannicchiai più vicino al muretto che mi faceva da riparo.

Pensavo intanto al cielo sopra le nubi, e all’aria stanca della mia amica, che sapeva quanto fosse stato difficile mettere le mani sulla cloche di un F-16, e che sapeva che sarebbe stato difficile e faticoso anche pilotarlo in battaglia, ma faceva quel che andava fatto, al suo meglio, e  con discreto successo, per di più.

Per ora, a me non era ancora riuscito nemmeno di piantare un'inutile filare di esplosivo.

Io, o Il mio sogno, decidemmo infine di infilarci una componente piccante, connotata anche da una balsamica ventata di speranza: conobbi una ragazza, come me in fanteria, e si aprì una casta parentesi platonica, presto chiusa dai doveri verso la Patria. La salutai dicendole, scegliendo una battuta tra le care sceneggiature americane di film pseudo-romantico-sentimentali: ci si vede quando ci si vede. Mi sentivo l’Humphrey Bogart della situazione. Ella mi risposa, prosaicamente, che in guerra non ci si rivede mai. Mi sentivo lo scemo della situazione.

Al che ho deciso di svegliarmi perché francamente ne avevo abbastanza di prendere legnate da vecchie e nuove amiche. Sono stato assalito da uno sconforto acutissimo, da un senso di rimpianto esacerbato all’estremo, da una sensazione di occasioni perdute, di errori grossolani, di autoinganni eccellenti.

Ho così, poco marzialmente, pianto alle 8 e mezza di mattina, in genere mi accade di notte. Una giornata iniziata con il segno giusto, insomma.

Sono tra coloro che ritengono i sogni quasi sempre pregni di significati nemmeno troppo occulti. Qui poi tutto mi è apparso chiaro come il sole, appena asciugate le lacrime e bevuto del caffèlatte.

Blaterare da fante prode sciocchezze in faccia alla morte e quant’altro, venendo poi smentito: un meccanismo che effettivamente metto in atto, girando le doglie della mia certo non facile esistenza (questo è purtroppo un fatto) in punti di forza, anziché considerarli punti di deboli da accudire, per lenire il dolore che provocano.

Incontrare la mia amica con il grado, e per di più il sinuoso aereo dei miei sogni: dimostrazione fattuale che a fronte di chi ciarla come me, c’e’ chi agisce e mi mangia in testa, ottenendo concretamente dei risultati seppure con fatica e senza illusioni, mentre io rimango sempre fermo a contemplare i miei insuccessi, e riempio i vuoti con una fiumana di parole.

Fallimento delle mie iniziative da fante perfetto: chiaro riflesso del risultato di buona parte delle mie iniziative reali.

Essere ignorato dagli ufficiali anche se faccio sciocchezze da corte marziale: sono riuscito a dare a bere ad un sacco di gente un sacco di fregnacce, per cui sembro au peir con tutti, o quasi, mentre affogo nella mota.

La ragazza che incontro alla fine delle peregrinazioni soldatesche, mezza tresca platonica (sono sempre un dannatissimo gentiluomo vecchia maniera, persino in sogno): dopotutto c’è una speranza, che “capita” da sé, condita con qualche piccante risvolto, ma non ci credo mica troppo, “ci si vede quando ci si vede” in un luogo in cui non ci si rivede mai.

Pianto al risveglio: direi opportuno, quando ci si sbatte in faccia da soli i propri limiti, per di più quando si sta dormendo.

Morale: come sempre, essendo comunque un soldato nella mia Guerra Eterna, prendo atto degli insegnamenti del mio inconscio, inteso in senso ampio, e tiro avanti, ho pur sempre altre dodici ore prima di addormentarmi e ricevere un’altra lezione.

Ciò cui riesco a non pensare da sveglio, mi torna indietro con gli interessi quando faccio visita a Morfeo.

Il fatto è che non vedo l’ora di avere un altro incubo rivelatore, o un altro sogno carico di sottintesi: un modo per trarre le conclusioni di ragionamenti che non mi accorgo nemmeno di fare.

15 ottobre, 2011

Aforismi/4

In un piccolo consessso, chi parla liberamente attira l’attenzione dei presenti; chi ascolta in silenzio, attira le emozioni degli animi più fini.

L’emancipazione sessuale femminile ha portato alla selezione innaturale degli uomini peggiori, piu’ impulsivi, meno riflessivi, furbi, e nel complesso rozzi: coloro i quali sono dotati di virtu’ decenti, per timidezza o semplice galanteria, hanno un successo riproduttivo minore. Naturalmente, le femmine si lamentavano dell’andazzo prima dell’emancipazione, e si lamentano altrettanto, se non di piu’, ora.

Il sognatore categorico rinuncia a tutto quello che lo sostiene per  vivere nel concreto: qualora fallisca nel nobile tentativo, ne rimane poco piu’ di un guscio vuoto e inutile, ed in genere anche affamato.

Ricchezza, idiozia, intelligenza e povertà sono quattro grandezze collegate da leggi contro intuitive che in pochi accettano:  agli altri manca il coraggio d’ammettere di essere stati elegantemente raggirati, o, nel caso alternativo,  di essere degli idioti di successo.

Quasi tutti gli uomini apprezzano la bellezza naturale di certi luoghi. In realtà, la quasi completa maggioranza e’ in grado di cogliere esclusivamente il luogo comune di quella bellezza, senza percepirne cioe’ altro che il consenso sociale che la circonda. Una sorta di bellezza che diviene convenzione.

Contemplare la bellezza e’ inevitabilmente doloroso. Chi non conosce la melanconia, non conosce la bellezza autentica, ma e’ in grado solo di quantificarla: operazione pressoché inutile, ma molto di moda.

Nell’adolescente e’ massima la fame di bellezza: essa scema via via, morsicata dagli imperativi pratici.

I fanciulli sono un’altra specie: ne’ uomini ne’ femmine, suscitano molte delle piu’ dolci emozioni che si possono apprezzare, perche’ non sono afflitti dalla quasi interezza degli istinti degli adulti; soprattutto dalle convenzioni sociali sulla sessualità.

L’impressione e’ che quasi nessuno, mortificato o satollo, soddisfatto o angustiato, felice o infelice che sia, sia nei nostri giorni in grado di definire esattamente perche’ continui giorno per giorno a fare cio’ che crede di aver scelto di fare, e che piu’ spesso gli e’ stato attualmente imposto.

20 maggio, 2011

Aforismi/3

Se qualcuno è al corrente che siete persone sole, molto probabilmente non e' affatto vero.


Amare una donna per molti uomini è un esercizio ginnico. Tutti gli altri maschi, pagano il prezzo della ginnastica eccessiva cui le femmine sono sottoposte.


Il dolore è una faccenda molto delicata. Delicato e' gestirla, delicato parlarne, delicata è tutta, da trattare, per non snaturarla: nulla di più glorioso di un dolore nobile, nulla di più oltraggioso di un dolore denaturato.


Avere di tempo di pensare al tempo distingue un saggio da uno stolto. E una persona sana da un nevrotico o psicotico.


Si può pagare per ciò che si può ottenere anche senza smerciare un soldo. In genere, il contrario è assolutamente falso. E' interessante quindi derivarne che ciò che è senza prezzo si possa in effetti ottenere con mezzi diversi dal denaro. Di fatto arricchendosi, rivendendo ad un prezzo arbitrario quanto si è ottenuto.


L'attesa è un'arte. Quando smette di esserlo, e' troppo tardi.


Attendere il momento buono è un modo scaltro per non ammettere che non sappiamo esattamente che fare.


Indulgere nella vendetta è un gesto quasi sempre controproducente. Se si resiste alla tentazione, si può solipsisticamente godersela comunque, e alla grande.


Amate chi vi ama e non odiate chi vi odia. Se invece volete capirne di più sulla natura umana, fate il contrario.

25 marzo, 2011

Yannick!

Il 17 febbraio passato non ho passato la migliore delle serate. Ho scritto queste parole, nate come mail ad un amico, senza sapere cosa avrei scritto. Mi sono piaciute al punto che ho deciso di metterle anche qui.

Nell'amore e nella memoria del mio amico Yannick, che spero ardentemente di rivedere, quando sara' il momento.

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Ciao Andrea...

Ho voglia di scrivere un po'.
Una volta, era il 2002 credo. Ero al lavoro, e mi ha chiamato un collega della ditta che avevo appena lasciato. Si chiamava Yannick Eysselink.

Aveva avuto una vita tremenda. Da piccolo, penso avesse sugli otto anni, con sua madre in macchina, ebbe un incidente. Sua madre mori' e lui rimase sfigurato. Gli rimisero insieme la faccia prendendo pezzi di cartilagine da gomito, ginocchio... orecchie... un macello. In effetti, aveva un viso improbabile, ma con le donne non aveva problemi, e son cose che non capiro' mai, avvolto come sono dall'epoca delle apparenze. Del resto, era un genio: scrittore, drammaturgo, aveva una padronanza della lingua (aveva la doppia cittadinanza belga e italiana) che non ho mai piu' trovato in nessuno: poteva giocare con le parole come fa Rodrigo con le palle da biliardo. Aveva un cuore immenso, una persona splendida. Era poeta, era scultore. Era un buon grafico ed un bravo programmatore. Una di quelle persone che se non si conoscono... le descrizioni rimangono poco piu' che lettera morta.

Come pochi, aveva anche la passione per quel genere di poesia che io reputo la piu' sincera e piu' difficile: quella che sta nelle cose che abbiamo intorno. Una volta mi disse, forse era il 2001, dopo un temporale primaverile, i raggi del sole che tagliavano l'aria tinta di vaniglia, fermandosi mentre passavamo per piazza Duomo, io alla ricerca di una birra, lui non ricordo: "Matteo, guarda che splendore questo cielo, guardalo, perche' a Milano non si vede mai un cielo cosi', e' un capolavoro, fermati con me e guardiamolo". Ancora adesso ce l'ho davanti agli occhi quel cielo, come una fotografia, un capolavoro di luce e bellezza sulla citta' scintillante della pioggia fresca. Un'altra volta, usciti dal lavoro (era sbronzo) c'era questa ragazza, una cosi', come mille milioni di altre ragazze, che stava sotto il portico ad aspettare. Non era ne' particolarmente bella ne' altro, aveva pero' un'aria affranta e triste. Ma Yannick ci vide qualcosa, e dopo un primo sguardo, si fermo' di botto, le appoggio' delicatamente un braccio al gomito e disse solo, e letteralmente, me lo ricordo: "Non temere: lui arrivera'". Si giro' e riparti' a spron battuto con me, attonito, a tallonarlo. Forse la ragazza stava davvero molcendosi il cuore perche' il suo innamorato stava tardando, o forse era rimasta banalmente divertita: io, dal sorriso improvvisamente sollevato che fece, grata, lo ricordo bene, penso fosse vera la prima ipotesi.

Era cosi', un genio, un santo e un'anima maledetta, anche. Lo conobbi nel 1999 tardo, quando iniziammo a lavorare insieme, e lui stava ricominciando a bere forte. Era etilista, aveva smesso, e proprio in quel periodo ricomincio' a bere. Tempo il 2002 della telefonata con cui ho iniziato questo racconto, era ricaduto nel bere completamente.

Viveva ad Ispra, sul lago Maggiore, con due cani che amava molto, in un enorme casa tra freschi pini ed aceri, ombrosi, che pero' non vidi mai permeata della strana vitalita' di Yannick: quando passai di la' aveva gia' l'aria di un posto lasciato al bosco da un secolo. Andava pazzo anche per suo nipote, un bambinetto, il figlio di sua sorella, la quale era una persona estremamente sgradevole che lo disprezzava, o comunque non l'amava.

Come altre persone cui la vita non ha riservato esattamente un trattamento di favore, se non nei doni innati, sembrava sempre allegro, sobrio o meno che fosse: non si lasciava mai sfuggire la possibilita' di infilare una battuta che lasciava di solito il piacere, nell'ascoltatore, di rigirarla linguisticamente e semanticamente tra le mani della mente per un paio di minuti almeno, per coglierne tutte le sfaccettature: era in grado di trasformare le parole come un caleidoscopio la luce.

Mi telefono' credo fosse mattino, e mi disse che voleva ammazzarsi. Io all'epoca ero da "soli" 8 anni circa in analisi e farmaci, e devo dire che le cose non mi buttavano poi cosi' male, o almeno lo posso dire ora. Non fu l'ultima volta che mi chiamo' con quelle idee, e io cercai di calmarlo, in primis, e poi di prospettargli qualche via d'uscita. Sai, all'epoca ero convinto che una psicoterapia ben fatta poteva salvare chiunque. Alla fine di quelle telefonate mi ringraziava e mi diceva che non c'era niente da fare, ma grazie lo stesso... alla fine probabilmente un po' si calmava, ed essendo uno che di difficolta' ne aveva affrontate a bastimenti, bastava forse fargli superare quei sette minuti di dolore puro che, anche senza le mie vaticinanti prognosi positive, sarebbe tornato comunque, se possiamo dire cosi', in se', anche se in se' e' sempre rimasto, per quel che ne posso dire io. Durante la sua vita Yan ne aveva viste di ogni. Trascorse anche tre anni come clochard in giro per l'Europa.

Una mattina, non molto tempo dopo, mi arrivo' una telefonata da un ex collega di entrambi, che mi diceva che Yan era morto d'infarto, non si sapeva bene quando. Il giorno dopo presi la motocicletta e cercai di capire che cosa fosse successo, visto che nessuno sembrava sapere niente. Cosi', era estate, partii per Ispra, e spesi una giornata fra interviste a passanti e ai carabinieri... fu in quell'occasione che vidi la sua casa... fino ad arrivare sul tardo pomeriggio della sorella, che abitava grossomodo in zona. Una persona che posso ricordare solo con tristezza, e un po' di disgusto.

Tirate le somme, ne sapeva meno di me e gliene interessava molto meno. Quello che potei sapere tra forze di polizia e indagini meno ortodosse, e' che mori' di infarto, da solo, davanti al frigorifero in cucina, mentre riassettava perche' doveva andare trovarlo una sua vecchia fiamma. Il funerale fu celebrato quasi un anno dopo, non ho mai capito esattamente perche'. Era una famiglia strana, o almeno era quello che di una famiglia, ricca e blasonata, restava.

Di episodi intercorrenti, durante la crescita esponenziale del suo bere, quando lavoravamo insieme, potrei raccontarne innumerevoli, ma una faccenda piu' di tutte mi e' sempre rimasta impressa in tutti questi anni. Fu durante quelle telefonate, durante le quali cercavo di consolarlo e deviare le sue intenzioni suicide. Piu' di una volta, quando gli ventilavo concretamente eventuali vie per uscire dall'alcolismo, o almeno cercare di star meglio, molto spesso iniziava a canzonarmi, blandamente e senza acrimonia, a modo suo, tra il serio e il faceto, districare l'uno dall'altro era impossibile. Mi sembrava che mi trattasse come se fossi un innocente giovinetto che cerca di spiegare ad un consumato assassino e mercenario come fare ad ammazzar mosche. Dal canto mio, pensavo che la sua penosa e dolorosa situazione gli impedisse di vedere le vie di uscita che pure di certo c'erano, magari non quelle che gli proponevo, ma pure fossero state altre, ci dovevano senz'altro essere. All'epoca, in effetti, mi sentivo la prova vivente della mia tesi.

Ad oggi sono passati quasi o piu' di dieci anni, e capisco molto meglio Yannick. Adesso anche io riderei bonariamente in faccia a qualcuno che mi facesse quel genere di discorso. Yannick, penso ora, non sorrideva di me perche' pensava io dicessi cose non vere, ma perche' non capivo quello che mi pare vero ora: cioe' che il gioco a volte non vale la candela.

Non so se Yannick avesse ragione o meno, tra l'altro mori' di morte naturale. Di certo c'e' che quello che fino ad oggi mi e' sempre sembrato una sorta di errore di Yan, quello di non cercare piu' un aiuto terapeutico, adesso mi pare l'esercizio della decisione che scaturisce in parte dalla forte e netta sensazione di averne abbastanza. Con una precisazione, pero'.

Una volta arrivo' in ufficio ubriaco fradicio, e io e Frantz, un collega, lo mettemmo in macchina al volo e lo portammo dove abitavo. In piazza Cinque Giornate dovemmo rincorrerlo per strada perche' era scappato giu' dalla macchina... non sapevo se ridere o piangere. Vivevo con tre ragazze, i quei giorni, ad una delle quali, Letizia, una siciliana dolcissima, spiegai per sommi capi la dinamica della faccenda. Piazzai Yan a smaltire i fumi sul mio letto e mi raccomandai con Letizia di chiamarmi per qualsiasi motivo al mondo, spiegandole reiteratamente che non la lasciavo con un ubriacone assassino e che non correva pericoli. Fu coraggiosa, ma ero certo di quel che le dicevo.

Alla fine della giornata lavorativa tornai a casa, da Letizia non avevo ricevuto chiamate d'aiuto o simili, ed un controllo all'ora di pranzo mi aveva rassicurato sul fatto che Yannick stesse ancora riposando.
T
rovai Letizia incantata da Yannick. Questi mi spiego' che si era svegliato, con la vescica a mille, e che aveva svuotato una bottiglia d'acqua e ci aveva orinato dentro per la vergogna di chiedere dove fosse il bagno. Poi era uscito dalla mia camera e aveva fatto conoscenza con la mia coinquilina. Letizia era all'oscuro, e Yan mi prese da parte e si raccomando' caldamente di sbarazzarmi dell'oggetto malefico ripieno del liquido rifiuto color del sole, e di non farlo sapere a lei. Mi ringrazio' e tutto quanto, scappo' via, e la cosa si chiuse cosi'.

Io penso che Yannick fosse stufo anche di faccende come questa. Io non lo giudicai male per nessuna delle cose che aveva fatto quel giorno, ne' lo fece Letizia che anzi non smise di enumerare le virtu' di Yan (era una ragazza sensibile e intelligente).

Ma c'era qualcuno che non perdonava, e quel qualcuno era Yan stesso. E adesso capisco che quel qualcuno, per quanto mi riguarda, di questi tempi, sono in effetti io, non molto diversamente.

Penso che Dio chiamando Yan a se', gli abbia fatto un grandissimo favore. Aveva, se non ricordo male, sui trentasette o trentacinque anni quando mori'. Penso che nessuno potesse piu' aiutarlo, non perche' fosse ontologicamente impossibile, ma perche' era al punto in cui essere aiutati e' come prendersi in giro da soli, perche' si crede, si sa, che ci si ritrovera' ancora e ancora con qualcuno che non pensa niente di male di te, anche se stai orinando in una bottiglia perche' ti vergogni di te stesso e non hai il coraggio di chiedere dove sia il bagno.

Ci sono persone, io credo, come Yannick, e come me, in modo un po' diverso, che dopo averlo piu' o meno metaforicamente fatto infinite volte, arrivano al punto di preferire di pensare alla morte o comunque di tirare a campare, piuttosto che chiedere ancora una volta dove si trovi questa volta l'ennesimo, maledetto bagno.

So Google, per molti versi l'autentico sepolcro della memoria storica dei nostri tempi, di Yannick, ingiustamente, rimane solo questo:

http://www.varesenews.it/articoli/2001/marzo/tempo-libero/16-3teatroepoesia.htm


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Un caro amico di entrambi mi ha segnalato che con una ricerca piu' appropriata, si puo' trovare di Yan molto di piu':  qui.

12 marzo, 2011

Scelte impossibili


Penso che solo a pochi sia dovuto di sopportare l'immenso stridore della roccia della realtà contro la pietra della bellezza.

Non è certo un privilegio. E' piuttosto un fenomeno che può essere considerato un onore, per non cedere all'idea che sia un immenso e dolorante fardello.

E' come volare raso sul mare calmo di smeraldo, e cabrare nel cielo azzurro e poi blu, e sentire al contempo che si sta provando qualcosa che non è reale, anzi, di deleterio.

Un'allucinazione è reale quanto basta per non poterla distinguere da ciò che “è” realmente, senza volersi qui addentrare nei meandri delle affascinanti teorie sulla conoscenza.
La bellezza, invece, ha un preciso grado di realtà.

Quando i fortunati la percepiscono come dato ontologico, e tuttavia, presto o tardi, la vedono collidere come una stella silenziosa con una singolarità, un buco nero di realtà, essi rilevando l'impossibilità per ella di continuare ad essere ciò che fino a quel momento è stata, ebbene, costoro devono operare una scelta.

Già membri per caso di un gruppo relativamente ristretto, essi possono decidere di cedere ai laccioli del buon senso, e ridefinire le coordinate nelle quali si spostano la bellezza e la realtà, caso più comune, in modo che la prima sia subordinata alla seconda.

Oppure, possono rimanere incantati dalla bellezza al punto di ridefinire le coordinate della propria percezione della realtà in modo tale per il quale la realtà diviene subordinata alla bellezza, la quale esiste ed esiste, e cui quella che è l'ontologicamente immodificabile realtà, si piega, o così pare, come acqua che, colpita da un sasso, inevitabilmente si deforma, creando delle onde circolari.

Ecco che, nel secondo caso, si manifesta il sogno categorico, il sogno come dato di realtà.

Del resto, chi sceglie la seconda via, dilaga nella realtà, divenendo fondante la realtà stessa ed andando in contro ad un balzello molto caro.

Tecnicamente parlando, in effetti questo approccio non è funzionale alla buona riuscita di una vita umana. E' piuttosto funzionale all'immolare la propria personalità all'Idea, un atteggiamento probabilmente nevrotico.

D'altro canto, c'è sempre una scelta fra le due posizioni: abbandonare o relativizzare il sogno, oppure eleggerlo a realtà effettiva. A volte la scelta e' consapevole, a volte no.

L'arte che pochi, e a caro prezzo, praticano, è rimanere quanto possibile in equilibrio sulla lama della scelta, guardando da lontano la bellezza assoluta, e soffrendo infinitamente i morsi di una realtà che non si accetta interamente, e di cui pure si bisogna.

Si è pazzi, ed eroi, ed idioti, tutte le tre cose ad un tempo: perchè si vive non bene, e si lascia dietro di se' poco o niente, ma si gode del sogno puro.

Eppure, come rinunciare alla bellezza assoluta! Non ne sarò capace probabilmente mai, e questo mi costerà amicizie, fortune, amore, e forse la vita.