16 giugno, 2014

Harlan Ellison

Da una mail ad un'amica, qualche giorno fa. Cinque di mattina.
__

In questo istante sono triste come l'infinitamente buio. In questo istante sono come una grotta allagata dalla marea della più pura disperazione. L'orizzonte delle prospettive è dietro di me, quello della realtà, confusamente e detestabilmente, di propria volontà, irridente e biasimantemi. Come un cane che morde senza crudeltà, per istinto, ma che infligge un dolore folle, così mi sento morso. Così mi mordo.


Mi strapperei un braccio per sentire un dolore forse maggiore, che mi distrugga: purtroppo so che funziona, più in piccolo, più di duecento cicatrici lo dimostrano, ma adesso non basta un taglio, servirebbe davvero un dolore fisico atroce per distrarmi da quelli emotivi, strapparsi un braccio, urlare fino ad assoradarsi da sé. Non sono in grado. Per fortuna: è un palliativo, ma i segni sono indelebili.

Ma è come se le vedessi, le mille lamette di un rasoio automatico dei vecchi tempi, quelle dei film, che i protagonisti ci si tagliano le vene, lamette che si agitano ad ogni mio pensiero come in un contenitore pieno di anima, tagliando e causando un dolore senza utilità, perché così intenso da obnubilare. Ogni lametta ha un nome, alcuni famigliari, come mamma, solitudine, disprezzo di sé, nonna, morte, errore, dolore arrecato. Molte, senza nome, purtroppo fanno male da morire, e basta.

Mi morderei a sangue un braccio, ora, qui. Non lo faccio perché poi dovrei risponderne, e perché so che domani non starò più così, anche se parimenti so che starò di nuovo come ora, nel prossimo futuro, perché succede sempre.

Così penso alle foto dell'Università che mi hai mandato, penso che sono molto belle e che lì c'è qualcosa di costruttivo, che si può esplorare.

Ma si può esplorare impazzendo per il dolore? Si può placare il dolore esplorando? Si può anche solo sperarlo? Si può sperare mentre si urla?

Non ho scelta se non quella di vivere, dove vivere è come masticare cocci di vetro.
Sono diventato il riflesso del mondo, ma ne fanno parte, di me, solo le urla che nessuno sente, e la disperazione che nessuno vede.

Sono pazzo di dolore e tuttavia razionale quanto basta per parlarne. Sono il prodotto difettoso di me stesso.

Ovviamente, domani il dolore sarà meno, e sarò costretto a starmene zitto. Sarà sopportabile. Diciamo che ho colto questo lungo attimo per lasciare una testimonianza.

Non ho bocca, e devo urlare.