08 aprile, 2019

Ipnosi

In fondo, onestamente, io non posso dire di averla conosciuta davvero. Se su di lei ho sentito mille ore di racconti, in proporzione con lei personalmente avro' scambiato forse un'ora di chiacchiere. Aveva un modo di parlare che mi affascinava, come se stesse raccontando qualcosa a se' stessa, e se parlava di qualcosa che le piaceva, le si illuminavano gli occhi. Ma posso dire, senza paura di essere bollato come un disonesto adulatore a caccia di prebende, che in lei avevo sentito qualcosa di non ordinario, straordinario forse.

Col senno di poi, per me e' lampante che sia la persona piu' spietatamente affamata di vivere, piu' che di vita, che abbia mai conosciuto. L'epilogo della sua parabola a mio dire lo dimostra nitidamente. Forse poteva andare altrimenti, ma, sempre forse, solo a persone molto, molto piu' comuni.

Nata in compagnia di una malattia che non l'ha infine perdonata, era una ragazza molto bella, di quella grazia finissima, quasi angelica in certi istanti, che non puo' che colpire fortissimamente i sensi e far innamorare allo schiocco delle dita.

Ma la natura del suo animo era tutt'altra questione. Credo di avere avuto la fortuna, nella sfortuna, di avere per lei minima visibilita' fino, forse, all'ultimo: certo questo non mi fa sentire particolarmente fiero, ma ho l'impressione che mi abbia permesso di cogliere della sua complicata natura il risuonare di molte note che altrimenti non avrei mai udito.

Se tutte queste ciance paiono un far facile dietrologia, devo chiarire, ammettere anzi, che come ho sempre avuto paura di lei, in un certo senso, ho paura anche a scriverne ora, pur avendone bisogno: nel dubbio tra tenere una linea prudente, oppure ostentare su di lei certezze da spacciare per oggettive, mi limitero' a dire quel che penso, ai fatti non credo abbia molto senso ricorrere se non lo stretto necessario. Quelle che seguono sono quindi le mie impressioni e sensazioni, che non hanno pretesa di verita'.

Ammetto che ho solamente riflessi ed ombre, e la memoria di lei cosi' come l'ho potuta conoscere.

Ne ho avuto paura immediatamente, come si avrebbe paura di una bellissima tigre affamata, che si guardasse in giro, ipnotica, dissennata, stupenda, e ci vedesse, e ci soppesasse, e decidesse che non valessimo il tempo di un pasto, voltandosi brusca altrove, liberandoci da un incantesimo che ci avrebbe forse fatto strappare il cuore dal nostro petto per offrirglielo, se fosse durato un attimo ancora.

Mi terrorizzava anche l'idea che tra quello che cercava e cio' che potevo eventualmente offrire si spalancasse un orrido, un abisso. Sarei un iprocrita se non ammettessi che le prime volte che la vidi mi ammalio', come penso capitasse a molti. Ma un pizzico di onesta' intellettuale e saggezza ed altro su cui preferisco sorvolare, per cosi' dire, mi fece ritenere opportuno chiudere il mio ammaliamento nello sgabuzzino dei rimpianti.

Nel corso del tempo, ho imparato che, quando raramente capitava, trascorressi del tempo con lei, potevo girare nei suoi paraggi senza venire notato dalla sua natura eternamente affamata, ed osservare il suo manto felino senza rischi eccessivi.

Era una persona intelligente, talvolta scaltra. Ai miei occhi spiccava che tanto fosse luminosamente bella, quanto il suo animo un dedalo poco illuminato di rami di frutta e rovi, e quale fosse un viticcio carico d'uva dolce, e quale invece una lama di spine, lo si poteva scoprire solo dopo averlo afferrato. Personalmente non ci provai mai.

Era una persona in un certo senso annoiata: quella sua voracita' temo le avesse fatto perdere il gusto del pasto quotidiano di vivere di cui aveva bisogno. Questo la rendeva ulteriormente feroce, in un certo modo, come solo la fame sa rendere.

Sembrava cercare sempre qualcosa che rimaneva appena fuori portata, nonostante tutto. Come molti coraggiosi, cercava di raggiungerla per tutte le vie che le venissero in mente, comprese quelle pericolose e pericolosissime, senza contare quelle che le "anime belle" non vorrebbero nemmeno sentire nominare.

Avevo l'impressione che amasse vivere quanto la vita ignorasse lei. Come una regina, avrebbe potuto avere il paradiso e l'inferno, assisa su un trono in grado di contare solo i secondi di infelicita'; credo che a sua discrezione, quanto dell'inferno che del paradiso, avesse in effetti nel tempo disposto di vasti domini, ma sospettavo altrettanto che la sua natura nervosa e vorace non le avesse mai concesso di trarne grandi vantaggi.

Ho sempre avuto l'impressione che avrebbe morso la mano che le avesse regalato il mondo, e stretto quella con l'unico grano di pietra preziosa che al mondo non ci fosse stata, anche al prezzo supremo.

Quello che credo fosse davvero difficile capire per chiunque, me compreso, fino alla fine, e' quale fosse infatti la portata effettiva di questo suo amore famelico per l'esistenza. Ora, nella mia immaginazione, il giorno che avesse avuto in mano mare, cielo, terra e il cuore del migliore degli uomini, avrebbe ben volentieri gettato tutto nelle fiamme del Sole per aver udito un bisbiglio che suggeriva ci fosse dell'altro, da qualche parte, da andare a cercare. Non per cupidigia; per lo stesso motivo che spinge i piu' grandi a non smettere mai di superarsi.

Le sue condizioni di salute potevano arrivare, altalenando, ad essere di quelle che spezzano l'acciaio. Nessun'animo fine, nessuna mente vivace puo' accettare quella condizione e non uscirne cambiata dai dubbi e dal risentimento. Io sono convinto che fosse molto, molto arrabbiata.

Il mio debole per lei torno' dopo molto tempo a farsi sentire. Non so per quale genere di misteriosa variazione della Musica delle Sfere, una sera fui colto da un'emozione e scrissi qualche riga per lei, dopo anni durante i quali non ero piu' riuscito, o non avevo piu' voluto, per quel che vale, a buttare giu' una parola. Fortuna volle, le piacquero. Il che, essendo io cio' che sono, mi delizio' e inevitabilmente solletico' la mia vanita'. In un certo senso mi sentii degno di accostarmi a lei, prudentemente.

Era estate, lei in ospedale, pensavo per uno dei soliti ricoveri in day hospital; mi allontanai dalla citta' per un paio di settimane di montagna, che passai francamente davvero allegro, cantando Springsteen, il braccio fuori dal finestrino, in attesa di vedere se con lei sarebbe potuto succedere qualcosa: e lo scrivo con il massimo del pudore e il massimo del rispetto, sia ben chiaro, esattamente come fu allora. Come tutti gli uomini non ancora invecchiati abbastanza, pensavo naturalmente che ci fosse ancora il tempo per tutto.

Dovevo tornare quel giorno, nel pomeriggio, ma era morta nella notte.

Per quel che vale, dopo anni prima di lei, e ad oggi, che di anni ne sono passati altri ancora, e' stata l'ultima volta che ho provato qualcosa di molto vicino all'innamorarsi.

Oltre all'imperitura ammirazione del suo regale, fortissimo desiderio di vivere, il regalo piu' bello che mi si sarebbe potuto fare, di cui sono e saro' sempre, con il massimo garbo, grato a Dafne.

16 luglio, 2014

Macchine del tempo

Dopo notte insonne, alle cinque antimeridiane mi son deciso per la gita. Mi trovo ora nel cortile Magnolie, dopo essermi perso enne volte in città. Atmosfera da peripato, giovani e pulzelle ovunque, se non si trova moglie o marito qua ci si può ritirare dalla piazza senza rimpianti di sorta. Arrivato troppo tardi per qualsiasi presentazione etc. Non ho più idea di dove abbia lasciato la macchina. 
Ambiente favoloso.

Ora in un altro sconosciuto patio, colgo scampoli di conversazione di tre giovani fanciulle, si interrogano sul significato di 'equipollente', non riesco a trattenermi ed emozionato ritorno per fornire un paio di sinonimi. Saluto in fretta a sguardo basso e fuggo via.

Al banchetto di Filosofia non so che domande fare, avvolto e morso dalle mie ansie varie e da un'emozione che mi ricorda i pensieri di quando ero fanciullo e scoprivo le prime forti sensazioni di bellezza e mistero e desiderio, rimanendone incantato e spaventato.

Ho il cuore in gola e le farfalle nello stomaco, buffo e molto pauroso.

Al banchetto di Filosofia origlio le risposte alle domande altrui. Anche se me ne venissero in mente, non riuscirei a porle: contando infatti la ragazza dietro al banco come probabile millesimo innamoramento da quando sono qui, timidezza e ansia renderebbero impossibile chiedere alcunché.

C'è ora la stessa atmosfera che avvolge la fine delle feste.

I più navigati chiacchierano le ultime chiacchiere appoggiati alla balaustra del primo piano del portico. Io seggo o mi muovo nell'ombra, vecchie abitudini emergono come prontuario d'emergenza anti ansia. Roba desueta che ritorna in auge, direi piuttosto disfunzionale, ma devo uscire di qua senza impazzire.

Le Tre Grazie equipollenti bloccano la via d'uscita, non me la sento di passare nuovamente davanti alla loro panchina, me la svigno da un uscio laterale.

Giro in tondo, ancora un volo radente intorno a Filosofia, mi allontano.

Sto letteralmente tremando, vorrei fuggire ma sono troppo affascinato, quelle torri laggiù mi osservano severamente, ma non saprei dire perché.

Gli occhi che lanciano intorno sguardi un po' allucinati: senz'altro docenti.

In quelli dei ragazzi solo una gioia di vivere e un riflesso di una bellezza e vivacità quasi ovvie, ma so bene che è solo l'incanto di qualche anno: tuttavia li invidio disperatamente.

Occhiali da sole per proteggermi, ma qui mi proteggono meglio gli occhi verdi esaltati dalla luce forte e qualche sorriso che spero disarmante; con questi due filo via tra i capannelli.

Urla e applausi, dev'essere una discussione di tesi appena terminata, a giudicare dal tacco dodici e dalla coroncina d'alloro. Ma nel passo un po' ostentato c'è un'ombra di cinismo che negli shorts sbarazzini delle più giovani, shorts ubiqui e chiaramente di moda, non vedo.

I ragazzi sono davvero pochissimi, tutte ragazze, mi chiedo perché, forse i miei compagni di genere sono diventati involuti scimmioni in questi anni.

Devo uscire da qui, sempre che riesca a smettere di tremare. Ora cercherò una birretta gelata in qualche bar, tasterò ancora il polso alla cittadina. Mi muovo, ora.

Quattro passi e vedo un posto carino. Una barriera d'ansia per la gente seduta fuori, la supero col vecchio trucco 'non puoi permettere che quest' ansia ti impedisca di fare quello che vuoi'. Perdo due anni di vita, ma sono seduto e ho una birra. Mi chiedono se voglio stuzzichini, rifiuto gentilmente, pochi momenti e il cameriere me li porta ugualmente con un sorriso.

Lo ringrazio come si ringrazia qualcuno che ha rinunciato ad un proprio rene per te.

Altro che Milano.

Assetto Anti Ansia: camminare senza guardare nessuno, occhiali da sole, auricolari con buona musica un po' d'élite. Autismo artificiale.

Birra troppo fresca e troppo piacevole, cerco di non finirla in due sorsi come avrei già fatto. Inutile.

Mi sento come in vacanza, non lasciavo il triangolo casa mia / casa dei miei / Barona da un anno circa.

Verso la macchina, una gelateria: decido di non negarmi niente, gusto il cono, molto buono, insieme ad un rumeno che mi racconta di tutto. Lo lascio con un euro in meno nelle mie tasche e un mezzo sorriso. La coda dell'occhio vede del verde, mi fermo, c'è un parchetto molto carino, una giovanissima coppietta è l'unica presenza. Disturbo per il tempo di uno scatto e proseguo.

La prova-vigili fa rilevare l'assenza di multa per parcheggio su strisce blu senza pagamento. Ottimo, ma non definitivo.

Sposto la macchina all'ombra, scrivo queste frasi, non voglio tornare ai miei inferni.

Ma quel che voglio conta sempre molto meno di quel che posso.

16 giugno, 2014

Harlan Ellison

Da una mail ad un'amica, qualche giorno fa. Cinque di mattina.
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In questo istante sono triste come l'infinitamente buio. In questo istante sono come una grotta allagata dalla marea della più pura disperazione. L'orizzonte delle prospettive è dietro di me, quello della realtà, confusamente e detestabilmente, di propria volontà, irridente e biasimantemi. Come un cane che morde senza crudeltà, per istinto, ma che infligge un dolore folle, così mi sento morso. Così mi mordo.


Mi strapperei un braccio per sentire un dolore forse maggiore, che mi distrugga: purtroppo so che funziona, più in piccolo, più di duecento cicatrici lo dimostrano, ma adesso non basta un taglio, servirebbe davvero un dolore fisico atroce per distrarmi da quelli emotivi, strapparsi un braccio, urlare fino ad assoradarsi da sé. Non sono in grado. Per fortuna: è un palliativo, ma i segni sono indelebili.

Ma è come se le vedessi, le mille lamette di un rasoio automatico dei vecchi tempi, quelle dei film, che i protagonisti ci si tagliano le vene, lamette che si agitano ad ogni mio pensiero come in un contenitore pieno di anima, tagliando e causando un dolore senza utilità, perché così intenso da obnubilare. Ogni lametta ha un nome, alcuni famigliari, come mamma, solitudine, disprezzo di sé, nonna, morte, errore, dolore arrecato. Molte, senza nome, purtroppo fanno male da morire, e basta.

Mi morderei a sangue un braccio, ora, qui. Non lo faccio perché poi dovrei risponderne, e perché so che domani non starò più così, anche se parimenti so che starò di nuovo come ora, nel prossimo futuro, perché succede sempre.

Così penso alle foto dell'Università che mi hai mandato, penso che sono molto belle e che lì c'è qualcosa di costruttivo, che si può esplorare.

Ma si può esplorare impazzendo per il dolore? Si può placare il dolore esplorando? Si può anche solo sperarlo? Si può sperare mentre si urla?

Non ho scelta se non quella di vivere, dove vivere è come masticare cocci di vetro.
Sono diventato il riflesso del mondo, ma ne fanno parte, di me, solo le urla che nessuno sente, e la disperazione che nessuno vede.

Sono pazzo di dolore e tuttavia razionale quanto basta per parlarne. Sono il prodotto difettoso di me stesso.

Ovviamente, domani il dolore sarà meno, e sarò costretto a starmene zitto. Sarà sopportabile. Diciamo che ho colto questo lungo attimo per lasciare una testimonianza.

Non ho bocca, e devo urlare.

06 marzo, 2012

Messaggio in una bottiglia

Salve Doc! Qua siamo bassi per evitare la mitraglia, ma non basta, ci prendono per dissenteria e pazzia... Sono più morto di quanto lo sia mai stato. Niente scampo, solo ceri in chiesa che non sto accendendo. Mi sento d'essere la mia stessa caricatura. La mitraglia non smette di urlare, forse mi ha falciato da un pezzo, ma non me ne sono accorto. Così posso finire in un solo modo, ma il Supremo ha altri progetti, credo e temo, l'ho scampata senza merito troppe volte.

16 novembre, 2011

Ridiamoci sopra!

Diciotto anni di servizio quasi inappuntabile e mai una licenza di più di un mese scarso. Come giusto, quando si dorme non si smette di combattere. L’esempio di stanotte è probante.

Raccontare i propri sogni è tanto gratificante per chi ne è stato protagonista, quanto noioso per chi ascolta; ma ho il bisogno di scriverne, nessuno me ne abbia, e non leggerne è una buona soluzione. Al termine di questo noioso riportare di fatti mai avvenuti, il lettore più furbo può trovare le mie acute conclusioni: potete farvi una risata a denti stretti laggiù, senza sorbirvi tutta la trafila.

Questa notte il sogno ha preso la forma di uno strano fronte orientale, in chiave di conflitto asimmetrico, moderno. Ero bardato come un soldato americano, analogo a quelli dei film e degli spezzoni ai telegiornali, piccole macchiette umane coperte di tecnologia e di equipaggiamenti da ventimila € tra fucili senzienti visori notturni guanti occhiali a specchio da fotomodello pistola camelbak maschera radio elmetto in kevlar ginocchiere gomitiere e una mimetica che fa tendenza, ridotto o eletto ad icona marciante e un po’ pacchiana di una religione prepotente, quella della macchina iperbellica totale. Fichissimo, insomma, come questo.

Ad ogni buon conto, mi aggiravo, alla maniera onirica, per una base avanzata, opulenta in fatto di materiale di ogni tipo, e vuota di persone con le quali interagire.
La prima tappa è stata in fureria, a prendere qualche ulteriore orpello, ed incomprensibili informazioni su quello che avrei dovuto effettivamente fare e dove andare. Quattro parole con il soldato (una donna) preposta all’uopo, e qualche altezzosa battuta soldatesca, mutuata dai film retorici e poco credibili che mi sorbisco da sveglio. Infine, la mia solita prosopopea, a dileggiare il rischio di morire, per dimostrare che io ero inevitabilmente differente, in una qualche migliore maniera, della carne da cannone ammassata laggiù.

Sì, talora i miei sogni raggiungono precisione da alta definizione televisiva, nelle immagini e nei dialoghi, salvo poi ritornare al rigore onirico, composto di salti temporali e spaziali, e soprattutto semantici. In effetti, me ne ero andato già due o tre volte da quella strana fureria, più simile ad un banco informazioni bancario, ogni volta provando un dialogo diverso, il cui senso era sempre lo stesso: io qui se ci crepo sono contento, non come voi altri idioti che non vedete l’ora di tornare ‘dalle vostre Mary Jane’, parafrasando un celebre dialogo cinematografico. Perché non ho nulla cui tornare, dicevo, e quindi tutto sommato io, che non ho nulla, sto meglio di voi altri che qualcosa, dopo tutto, avete, in un altro posto, se non altro, noiosi cretini.

Ma di rado sono pietoso con me stesso, in sogno mai, e all’ennesima compiaciuta reiterazione del mio prode discorso, notavo che una ragazza faceva il proprio ingresso sulla scena.
L’aria stanca, di chi ha fatto fatica e sa che è probabile ne dovrà fare ancora, passava di là per disbrigare una qualche faccenda. Indossava un casco tecnico da pilota, e solo allora mi sono reso conto che per quanto mi riguardava ero un soldato semplice, l’ultimo della fila e della lista, un nome su una tomba già scavata a fianco a mille altre identiche, alla faccia dei miei tronfi sproloqui. Anche se in sogno, l’ossessione bellica mi insegnava che doveva trattarsi di un pilota, dato il casco, e di un ufficiale, dato che i piloti di caccia in genere lo sono.

Come fossi davanti ad una sorta di divinità, nel mondo in cui mi trovavo: eravamo gerarchicamente e operativamente distanti quanto il conto in banca e le abitudini dell’homo sapiens sapiens italiano e quelle di un calciatore o di una rock star, notoriamente di una specie diversa.

Ho riconosciuto immediatamente la ragazza: la conobbi, nel mondo non-onirico, a sedici anni, al mare. S’intessé una complessa ragnatela sentimentale dalla quale credo nessuno è uscito assolutamente indenne, o almeno io.

Bloccato, non avevo il coraggio né di salutarla né di avvicinarmi. Mi sono limitato a fissarla, sperando mi vedesse, e così è stato. Risolto il problema del Primo Contatto, sbrigati i salamelecchi obbligatori, le chiesi se pilotasse (banali) elicotteri. Mi rispose che, no, pilotava F-16 (un esempio). Come dire, traslando un significato per me ovvio, che oltre ad essere ben al di sotto anche solo al diritto di parlarle, in quanto pilota ed ufficiale, pilotava un caccia multiruolo che amo per le forme aggraziate, le curve della fusoliera priva di spigoli vivi e, per chi ama questo genere di prodotti tecnologici, anche per la particolare sensualità.

Molto a disagio scambiai qualche parola di prammatica, rendendomi conto che non c’era molto da dire, che con quella persona quel che v’era da scambiare era stato scambiato illo tempore: adesso, semplicemente, io sarei andato a strisciare nel fango, fino all’anelato decesso, e lei a chiudere eleganti immelmann nel cielo perfetto sopra le nuvole: e se l’era meritato con le azioni, quanto io mi ero meritato il fango a parole. Una brutta sensazione.

Congedatomi dal pilota, non senza acuti rimpianti e una familiare sensazione di fallimento totale, e preso atto della faccenda nel suo complesso e della mia effettiva condizione, mi risolsi di espletare i miei compiti di fanteria quanto meno al meglio delle mie possibilità.

Inanellai una serie di clamorosi insuccessi. Al banco riparazioni pistole, ricevetti un cicchetto indimenticabile quando dimostrai di avere un colpo, per di più danneggiato, incamerato nella mia Beretta d’ordinanza davanti al sottufficiale. Me ne andai di lì con la pistola smontata che non sapevo come rimettere insieme, la coda fra le gambe.

In seconda istanza, mi trovai impegnato nel piantare dell’esplosivo in filari simili a quelli di un vitigno, attività oniricamente pregna quanto priva di alcuna utilità nel mondo reale. Per strani meccanismi, il filare di mia competenza era già occupato da un soldato che ne sapeva più di me, altri liberi non ve n’erano, e l’ufficiale che controllava il nostro lavoro pareva infischiarsene del sottoscritto, che con l’esplosivo in mano si aggirava all'intorno a guisa d'idiota.

Mi fu poi affidato l’incarico di scavare una sorta di fossa enorme. Anche qui combinai non so quale disastro. Fummo in seguito attaccati, noi privi di fucili, da avversa fazione. Un commilitone sembrava non avere alcuna paura, e giocherellava, facendo cose possibili solo in sogno, fino a che fu falciato da una raffica. Scoprii che, a dispetto delle mie precedenti dichiarazioni in fureria, non lo invidiavo affatto, e mi rannicchiai più vicino al muretto che mi faceva da riparo.

Pensavo intanto al cielo sopra le nubi, e all’aria stanca della mia amica, che sapeva quanto fosse stato difficile mettere le mani sulla cloche di un F-16, e che sapeva che sarebbe stato difficile e faticoso anche pilotarlo in battaglia, ma faceva quel che andava fatto, al suo meglio, e  con discreto successo, per di più.

Per ora, a me non era ancora riuscito nemmeno di piantare un'inutile filare di esplosivo.

Io, o Il mio sogno, decidemmo infine di infilarci una componente piccante, connotata anche da una balsamica ventata di speranza: conobbi una ragazza, come me in fanteria, e si aprì una casta parentesi platonica, presto chiusa dai doveri verso la Patria. La salutai dicendole, scegliendo una battuta tra le care sceneggiature americane di film pseudo-romantico-sentimentali: ci si vede quando ci si vede. Mi sentivo l’Humphrey Bogart della situazione. Ella mi risposa, prosaicamente, che in guerra non ci si rivede mai. Mi sentivo lo scemo della situazione.

Al che ho deciso di svegliarmi perché francamente ne avevo abbastanza di prendere legnate da vecchie e nuove amiche. Sono stato assalito da uno sconforto acutissimo, da un senso di rimpianto esacerbato all’estremo, da una sensazione di occasioni perdute, di errori grossolani, di autoinganni eccellenti.

Ho così, poco marzialmente, pianto alle 8 e mezza di mattina, in genere mi accade di notte. Una giornata iniziata con il segno giusto, insomma.

Sono tra coloro che ritengono i sogni quasi sempre pregni di significati nemmeno troppo occulti. Qui poi tutto mi è apparso chiaro come il sole, appena asciugate le lacrime e bevuto del caffèlatte.

Blaterare da fante prode sciocchezze in faccia alla morte e quant’altro, venendo poi smentito: un meccanismo che effettivamente metto in atto, girando le doglie della mia certo non facile esistenza (questo è purtroppo un fatto) in punti di forza, anziché considerarli punti di deboli da accudire, per lenire il dolore che provocano.

Incontrare la mia amica con il grado, e per di più il sinuoso aereo dei miei sogni: dimostrazione fattuale che a fronte di chi ciarla come me, c’e’ chi agisce e mi mangia in testa, ottenendo concretamente dei risultati seppure con fatica e senza illusioni, mentre io rimango sempre fermo a contemplare i miei insuccessi, e riempio i vuoti con una fiumana di parole.

Fallimento delle mie iniziative da fante perfetto: chiaro riflesso del risultato di buona parte delle mie iniziative reali.

Essere ignorato dagli ufficiali anche se faccio sciocchezze da corte marziale: sono riuscito a dare a bere ad un sacco di gente un sacco di fregnacce, per cui sembro au peir con tutti, o quasi, mentre affogo nella mota.

La ragazza che incontro alla fine delle peregrinazioni soldatesche, mezza tresca platonica (sono sempre un dannatissimo gentiluomo vecchia maniera, persino in sogno): dopotutto c’è una speranza, che “capita” da sé, condita con qualche piccante risvolto, ma non ci credo mica troppo, “ci si vede quando ci si vede” in un luogo in cui non ci si rivede mai.

Pianto al risveglio: direi opportuno, quando ci si sbatte in faccia da soli i propri limiti, per di più quando si sta dormendo.

Morale: come sempre, essendo comunque un soldato nella mia Guerra Eterna, prendo atto degli insegnamenti del mio inconscio, inteso in senso ampio, e tiro avanti, ho pur sempre altre dodici ore prima di addormentarmi e ricevere un’altra lezione.

Ciò cui riesco a non pensare da sveglio, mi torna indietro con gli interessi quando faccio visita a Morfeo.

Il fatto è che non vedo l’ora di avere un altro incubo rivelatore, o un altro sogno carico di sottintesi: un modo per trarre le conclusioni di ragionamenti che non mi accorgo nemmeno di fare.

15 ottobre, 2011

Aforismi/4

In un piccolo consessso, chi parla liberamente attira l’attenzione dei presenti; chi ascolta in silenzio, attira le emozioni degli animi più fini.

L’emancipazione sessuale femminile ha portato alla selezione innaturale degli uomini peggiori, piu’ impulsivi, meno riflessivi, furbi, e nel complesso rozzi: coloro i quali sono dotati di virtu’ decenti, per timidezza o semplice galanteria, hanno un successo riproduttivo minore. Naturalmente, le femmine si lamentavano dell’andazzo prima dell’emancipazione, e si lamentano altrettanto, se non di piu’, ora.

Il sognatore categorico rinuncia a tutto quello che lo sostiene per  vivere nel concreto: qualora fallisca nel nobile tentativo, ne rimane poco piu’ di un guscio vuoto e inutile, ed in genere anche affamato.

Ricchezza, idiozia, intelligenza e povertà sono quattro grandezze collegate da leggi contro intuitive che in pochi accettano:  agli altri manca il coraggio d’ammettere di essere stati elegantemente raggirati, o, nel caso alternativo,  di essere degli idioti di successo.

Quasi tutti gli uomini apprezzano la bellezza naturale di certi luoghi. In realtà, la quasi completa maggioranza e’ in grado di cogliere esclusivamente il luogo comune di quella bellezza, senza percepirne cioe’ altro che il consenso sociale che la circonda. Una sorta di bellezza che diviene convenzione.

Contemplare la bellezza e’ inevitabilmente doloroso. Chi non conosce la melanconia, non conosce la bellezza autentica, ma e’ in grado solo di quantificarla: operazione pressoché inutile, ma molto di moda.

Nell’adolescente e’ massima la fame di bellezza: essa scema via via, morsicata dagli imperativi pratici.

I fanciulli sono un’altra specie: ne’ uomini ne’ femmine, suscitano molte delle piu’ dolci emozioni che si possono apprezzare, perche’ non sono afflitti dalla quasi interezza degli istinti degli adulti; soprattutto dalle convenzioni sociali sulla sessualità.

L’impressione e’ che quasi nessuno, mortificato o satollo, soddisfatto o angustiato, felice o infelice che sia, sia nei nostri giorni in grado di definire esattamente perche’ continui giorno per giorno a fare cio’ che crede di aver scelto di fare, e che piu’ spesso gli e’ stato attualmente imposto.

20 maggio, 2011

Aforismi/3

Se qualcuno è al corrente che siete persone sole, molto probabilmente non e' affatto vero.


Amare una donna per molti uomini è un esercizio ginnico. Tutti gli altri maschi, pagano il prezzo della ginnastica eccessiva cui le femmine sono sottoposte.


Il dolore è una faccenda molto delicata. Delicato e' gestirla, delicato parlarne, delicata è tutta, da trattare, per non snaturarla: nulla di più glorioso di un dolore nobile, nulla di più oltraggioso di un dolore denaturato.


Avere di tempo di pensare al tempo distingue un saggio da uno stolto. E una persona sana da un nevrotico o psicotico.


Si può pagare per ciò che si può ottenere anche senza smerciare un soldo. In genere, il contrario è assolutamente falso. E' interessante quindi derivarne che ciò che è senza prezzo si possa in effetti ottenere con mezzi diversi dal denaro. Di fatto arricchendosi, rivendendo ad un prezzo arbitrario quanto si è ottenuto.


L'attesa è un'arte. Quando smette di esserlo, e' troppo tardi.


Attendere il momento buono è un modo scaltro per non ammettere che non sappiamo esattamente che fare.


Indulgere nella vendetta è un gesto quasi sempre controproducente. Se si resiste alla tentazione, si può solipsisticamente godersela comunque, e alla grande.


Amate chi vi ama e non odiate chi vi odia. Se invece volete capirne di più sulla natura umana, fate il contrario.