16 luglio, 2014

Macchine del tempo

Dopo notte insonne, alle cinque antimeridiane mi son deciso per la gita. Mi trovo ora nel cortile Magnolie, dopo essermi perso enne volte in città. Atmosfera da peripato, giovani e pulzelle ovunque, se non si trova moglie o marito qua ci si può ritirare dalla piazza senza rimpianti di sorta. Arrivato troppo tardi per qualsiasi presentazione etc. Non ho più idea di dove abbia lasciato la macchina. 
Ambiente favoloso.

Ora in un altro sconosciuto patio, colgo scampoli di conversazione di tre giovani fanciulle, si interrogano sul significato di 'equipollente', non riesco a trattenermi ed emozionato ritorno per fornire un paio di sinonimi. Saluto in fretta a sguardo basso e fuggo via.

Al banchetto di Filosofia non so che domande fare, avvolto e morso dalle mie ansie varie e da un'emozione che mi ricorda i pensieri di quando ero fanciullo e scoprivo le prime forti sensazioni di bellezza e mistero e desiderio, rimanendone incantato e spaventato.

Ho il cuore in gola e le farfalle nello stomaco, buffo e molto pauroso.

Al banchetto di Filosofia origlio le risposte alle domande altrui. Anche se me ne venissero in mente, non riuscirei a porle: contando infatti la ragazza dietro al banco come probabile millesimo innamoramento da quando sono qui, timidezza e ansia renderebbero impossibile chiedere alcunché.

C'è ora la stessa atmosfera che avvolge la fine delle feste.

I più navigati chiacchierano le ultime chiacchiere appoggiati alla balaustra del primo piano del portico. Io seggo o mi muovo nell'ombra, vecchie abitudini emergono come prontuario d'emergenza anti ansia. Roba desueta che ritorna in auge, direi piuttosto disfunzionale, ma devo uscire di qua senza impazzire.

Le Tre Grazie equipollenti bloccano la via d'uscita, non me la sento di passare nuovamente davanti alla loro panchina, me la svigno da un uscio laterale.

Giro in tondo, ancora un volo radente intorno a Filosofia, mi allontano.

Sto letteralmente tremando, vorrei fuggire ma sono troppo affascinato, quelle torri laggiù mi osservano severamente, ma non saprei dire perché.

Gli occhi che lanciano intorno sguardi un po' allucinati: senz'altro docenti.

In quelli dei ragazzi solo una gioia di vivere e un riflesso di una bellezza e vivacità quasi ovvie, ma so bene che è solo l'incanto di qualche anno: tuttavia li invidio disperatamente.

Occhiali da sole per proteggermi, ma qui mi proteggono meglio gli occhi verdi esaltati dalla luce forte e qualche sorriso che spero disarmante; con questi due filo via tra i capannelli.

Urla e applausi, dev'essere una discussione di tesi appena terminata, a giudicare dal tacco dodici e dalla coroncina d'alloro. Ma nel passo un po' ostentato c'è un'ombra di cinismo che negli shorts sbarazzini delle più giovani, shorts ubiqui e chiaramente di moda, non vedo.

I ragazzi sono davvero pochissimi, tutte ragazze, mi chiedo perché, forse i miei compagni di genere sono diventati involuti scimmioni in questi anni.

Devo uscire da qui, sempre che riesca a smettere di tremare. Ora cercherò una birretta gelata in qualche bar, tasterò ancora il polso alla cittadina. Mi muovo, ora.

Quattro passi e vedo un posto carino. Una barriera d'ansia per la gente seduta fuori, la supero col vecchio trucco 'non puoi permettere che quest' ansia ti impedisca di fare quello che vuoi'. Perdo due anni di vita, ma sono seduto e ho una birra. Mi chiedono se voglio stuzzichini, rifiuto gentilmente, pochi momenti e il cameriere me li porta ugualmente con un sorriso.

Lo ringrazio come si ringrazia qualcuno che ha rinunciato ad un proprio rene per te.

Altro che Milano.

Assetto Anti Ansia: camminare senza guardare nessuno, occhiali da sole, auricolari con buona musica un po' d'élite. Autismo artificiale.

Birra troppo fresca e troppo piacevole, cerco di non finirla in due sorsi come avrei già fatto. Inutile.

Mi sento come in vacanza, non lasciavo il triangolo casa mia / casa dei miei / Barona da un anno circa.

Verso la macchina, una gelateria: decido di non negarmi niente, gusto il cono, molto buono, insieme ad un rumeno che mi racconta di tutto. Lo lascio con un euro in meno nelle mie tasche e un mezzo sorriso. La coda dell'occhio vede del verde, mi fermo, c'è un parchetto molto carino, una giovanissima coppietta è l'unica presenza. Disturbo per il tempo di uno scatto e proseguo.

La prova-vigili fa rilevare l'assenza di multa per parcheggio su strisce blu senza pagamento. Ottimo, ma non definitivo.

Sposto la macchina all'ombra, scrivo queste frasi, non voglio tornare ai miei inferni.

Ma quel che voglio conta sempre molto meno di quel che posso.

16 giugno, 2014

Harlan Ellison

Da una mail ad un'amica, qualche giorno fa. Cinque di mattina.
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In questo istante sono triste come l'infinitamente buio. In questo istante sono come una grotta allagata dalla marea della più pura disperazione. L'orizzonte delle prospettive è dietro di me, quello della realtà, confusamente e detestabilmente, di propria volontà, irridente e biasimantemi. Come un cane che morde senza crudeltà, per istinto, ma che infligge un dolore folle, così mi sento morso. Così mi mordo.


Mi strapperei un braccio per sentire un dolore forse maggiore, che mi distrugga: purtroppo so che funziona, più in piccolo, più di duecento cicatrici lo dimostrano, ma adesso non basta un taglio, servirebbe davvero un dolore fisico atroce per distrarmi da quelli emotivi, strapparsi un braccio, urlare fino ad assoradarsi da sé. Non sono in grado. Per fortuna: è un palliativo, ma i segni sono indelebili.

Ma è come se le vedessi, le mille lamette di un rasoio automatico dei vecchi tempi, quelle dei film, che i protagonisti ci si tagliano le vene, lamette che si agitano ad ogni mio pensiero come in un contenitore pieno di anima, tagliando e causando un dolore senza utilità, perché così intenso da obnubilare. Ogni lametta ha un nome, alcuni famigliari, come mamma, solitudine, disprezzo di sé, nonna, morte, errore, dolore arrecato. Molte, senza nome, purtroppo fanno male da morire, e basta.

Mi morderei a sangue un braccio, ora, qui. Non lo faccio perché poi dovrei risponderne, e perché so che domani non starò più così, anche se parimenti so che starò di nuovo come ora, nel prossimo futuro, perché succede sempre.

Così penso alle foto dell'Università che mi hai mandato, penso che sono molto belle e che lì c'è qualcosa di costruttivo, che si può esplorare.

Ma si può esplorare impazzendo per il dolore? Si può placare il dolore esplorando? Si può anche solo sperarlo? Si può sperare mentre si urla?

Non ho scelta se non quella di vivere, dove vivere è come masticare cocci di vetro.
Sono diventato il riflesso del mondo, ma ne fanno parte, di me, solo le urla che nessuno sente, e la disperazione che nessuno vede.

Sono pazzo di dolore e tuttavia razionale quanto basta per parlarne. Sono il prodotto difettoso di me stesso.

Ovviamente, domani il dolore sarà meno, e sarò costretto a starmene zitto. Sarà sopportabile. Diciamo che ho colto questo lungo attimo per lasciare una testimonianza.

Non ho bocca, e devo urlare.