16 novembre, 2011

Ridiamoci sopra!

Diciotto anni di servizio quasi inappuntabile e mai una licenza di più di un mese scarso. Come giusto, quando si dorme non si smette di combattere. L’esempio di stanotte è probante.

Raccontare i propri sogni è tanto gratificante per chi ne è stato protagonista, quanto noioso per chi ascolta; ma ho il bisogno di scriverne, nessuno me ne abbia, e non leggerne è una buona soluzione. Al termine di questo noioso riportare di fatti mai avvenuti, il lettore più furbo può trovare le mie acute conclusioni: potete farvi una risata a denti stretti laggiù, senza sorbirvi tutta la trafila.

Questa notte il sogno ha preso la forma di uno strano fronte orientale, in chiave di conflitto asimmetrico, moderno. Ero bardato come un soldato americano, analogo a quelli dei film e degli spezzoni ai telegiornali, piccole macchiette umane coperte di tecnologia e di equipaggiamenti da ventimila € tra fucili senzienti visori notturni guanti occhiali a specchio da fotomodello pistola camelbak maschera radio elmetto in kevlar ginocchiere gomitiere e una mimetica che fa tendenza, ridotto o eletto ad icona marciante e un po’ pacchiana di una religione prepotente, quella della macchina iperbellica totale. Fichissimo, insomma, come questo.

Ad ogni buon conto, mi aggiravo, alla maniera onirica, per una base avanzata, opulenta in fatto di materiale di ogni tipo, e vuota di persone con le quali interagire.
La prima tappa è stata in fureria, a prendere qualche ulteriore orpello, ed incomprensibili informazioni su quello che avrei dovuto effettivamente fare e dove andare. Quattro parole con il soldato (una donna) preposta all’uopo, e qualche altezzosa battuta soldatesca, mutuata dai film retorici e poco credibili che mi sorbisco da sveglio. Infine, la mia solita prosopopea, a dileggiare il rischio di morire, per dimostrare che io ero inevitabilmente differente, in una qualche migliore maniera, della carne da cannone ammassata laggiù.

Sì, talora i miei sogni raggiungono precisione da alta definizione televisiva, nelle immagini e nei dialoghi, salvo poi ritornare al rigore onirico, composto di salti temporali e spaziali, e soprattutto semantici. In effetti, me ne ero andato già due o tre volte da quella strana fureria, più simile ad un banco informazioni bancario, ogni volta provando un dialogo diverso, il cui senso era sempre lo stesso: io qui se ci crepo sono contento, non come voi altri idioti che non vedete l’ora di tornare ‘dalle vostre Mary Jane’, parafrasando un celebre dialogo cinematografico. Perché non ho nulla cui tornare, dicevo, e quindi tutto sommato io, che non ho nulla, sto meglio di voi altri che qualcosa, dopo tutto, avete, in un altro posto, se non altro, noiosi cretini.

Ma di rado sono pietoso con me stesso, in sogno mai, e all’ennesima compiaciuta reiterazione del mio prode discorso, notavo che una ragazza faceva il proprio ingresso sulla scena.
L’aria stanca, di chi ha fatto fatica e sa che è probabile ne dovrà fare ancora, passava di là per disbrigare una qualche faccenda. Indossava un casco tecnico da pilota, e solo allora mi sono reso conto che per quanto mi riguardava ero un soldato semplice, l’ultimo della fila e della lista, un nome su una tomba già scavata a fianco a mille altre identiche, alla faccia dei miei tronfi sproloqui. Anche se in sogno, l’ossessione bellica mi insegnava che doveva trattarsi di un pilota, dato il casco, e di un ufficiale, dato che i piloti di caccia in genere lo sono.

Come fossi davanti ad una sorta di divinità, nel mondo in cui mi trovavo: eravamo gerarchicamente e operativamente distanti quanto il conto in banca e le abitudini dell’homo sapiens sapiens italiano e quelle di un calciatore o di una rock star, notoriamente di una specie diversa.

Ho riconosciuto immediatamente la ragazza: la conobbi, nel mondo non-onirico, a sedici anni, al mare. S’intessé una complessa ragnatela sentimentale dalla quale credo nessuno è uscito assolutamente indenne, o almeno io.

Bloccato, non avevo il coraggio né di salutarla né di avvicinarmi. Mi sono limitato a fissarla, sperando mi vedesse, e così è stato. Risolto il problema del Primo Contatto, sbrigati i salamelecchi obbligatori, le chiesi se pilotasse (banali) elicotteri. Mi rispose che, no, pilotava F-16 (un esempio). Come dire, traslando un significato per me ovvio, che oltre ad essere ben al di sotto anche solo al diritto di parlarle, in quanto pilota ed ufficiale, pilotava un caccia multiruolo che amo per le forme aggraziate, le curve della fusoliera priva di spigoli vivi e, per chi ama questo genere di prodotti tecnologici, anche per la particolare sensualità.

Molto a disagio scambiai qualche parola di prammatica, rendendomi conto che non c’era molto da dire, che con quella persona quel che v’era da scambiare era stato scambiato illo tempore: adesso, semplicemente, io sarei andato a strisciare nel fango, fino all’anelato decesso, e lei a chiudere eleganti immelmann nel cielo perfetto sopra le nuvole: e se l’era meritato con le azioni, quanto io mi ero meritato il fango a parole. Una brutta sensazione.

Congedatomi dal pilota, non senza acuti rimpianti e una familiare sensazione di fallimento totale, e preso atto della faccenda nel suo complesso e della mia effettiva condizione, mi risolsi di espletare i miei compiti di fanteria quanto meno al meglio delle mie possibilità.

Inanellai una serie di clamorosi insuccessi. Al banco riparazioni pistole, ricevetti un cicchetto indimenticabile quando dimostrai di avere un colpo, per di più danneggiato, incamerato nella mia Beretta d’ordinanza davanti al sottufficiale. Me ne andai di lì con la pistola smontata che non sapevo come rimettere insieme, la coda fra le gambe.

In seconda istanza, mi trovai impegnato nel piantare dell’esplosivo in filari simili a quelli di un vitigno, attività oniricamente pregna quanto priva di alcuna utilità nel mondo reale. Per strani meccanismi, il filare di mia competenza era già occupato da un soldato che ne sapeva più di me, altri liberi non ve n’erano, e l’ufficiale che controllava il nostro lavoro pareva infischiarsene del sottoscritto, che con l’esplosivo in mano si aggirava all'intorno a guisa d'idiota.

Mi fu poi affidato l’incarico di scavare una sorta di fossa enorme. Anche qui combinai non so quale disastro. Fummo in seguito attaccati, noi privi di fucili, da avversa fazione. Un commilitone sembrava non avere alcuna paura, e giocherellava, facendo cose possibili solo in sogno, fino a che fu falciato da una raffica. Scoprii che, a dispetto delle mie precedenti dichiarazioni in fureria, non lo invidiavo affatto, e mi rannicchiai più vicino al muretto che mi faceva da riparo.

Pensavo intanto al cielo sopra le nubi, e all’aria stanca della mia amica, che sapeva quanto fosse stato difficile mettere le mani sulla cloche di un F-16, e che sapeva che sarebbe stato difficile e faticoso anche pilotarlo in battaglia, ma faceva quel che andava fatto, al suo meglio, e  con discreto successo, per di più.

Per ora, a me non era ancora riuscito nemmeno di piantare un'inutile filare di esplosivo.

Io, o Il mio sogno, decidemmo infine di infilarci una componente piccante, connotata anche da una balsamica ventata di speranza: conobbi una ragazza, come me in fanteria, e si aprì una casta parentesi platonica, presto chiusa dai doveri verso la Patria. La salutai dicendole, scegliendo una battuta tra le care sceneggiature americane di film pseudo-romantico-sentimentali: ci si vede quando ci si vede. Mi sentivo l’Humphrey Bogart della situazione. Ella mi risposa, prosaicamente, che in guerra non ci si rivede mai. Mi sentivo lo scemo della situazione.

Al che ho deciso di svegliarmi perché francamente ne avevo abbastanza di prendere legnate da vecchie e nuove amiche. Sono stato assalito da uno sconforto acutissimo, da un senso di rimpianto esacerbato all’estremo, da una sensazione di occasioni perdute, di errori grossolani, di autoinganni eccellenti.

Ho così, poco marzialmente, pianto alle 8 e mezza di mattina, in genere mi accade di notte. Una giornata iniziata con il segno giusto, insomma.

Sono tra coloro che ritengono i sogni quasi sempre pregni di significati nemmeno troppo occulti. Qui poi tutto mi è apparso chiaro come il sole, appena asciugate le lacrime e bevuto del caffèlatte.

Blaterare da fante prode sciocchezze in faccia alla morte e quant’altro, venendo poi smentito: un meccanismo che effettivamente metto in atto, girando le doglie della mia certo non facile esistenza (questo è purtroppo un fatto) in punti di forza, anziché considerarli punti di deboli da accudire, per lenire il dolore che provocano.

Incontrare la mia amica con il grado, e per di più il sinuoso aereo dei miei sogni: dimostrazione fattuale che a fronte di chi ciarla come me, c’e’ chi agisce e mi mangia in testa, ottenendo concretamente dei risultati seppure con fatica e senza illusioni, mentre io rimango sempre fermo a contemplare i miei insuccessi, e riempio i vuoti con una fiumana di parole.

Fallimento delle mie iniziative da fante perfetto: chiaro riflesso del risultato di buona parte delle mie iniziative reali.

Essere ignorato dagli ufficiali anche se faccio sciocchezze da corte marziale: sono riuscito a dare a bere ad un sacco di gente un sacco di fregnacce, per cui sembro au peir con tutti, o quasi, mentre affogo nella mota.

La ragazza che incontro alla fine delle peregrinazioni soldatesche, mezza tresca platonica (sono sempre un dannatissimo gentiluomo vecchia maniera, persino in sogno): dopotutto c’è una speranza, che “capita” da sé, condita con qualche piccante risvolto, ma non ci credo mica troppo, “ci si vede quando ci si vede” in un luogo in cui non ci si rivede mai.

Pianto al risveglio: direi opportuno, quando ci si sbatte in faccia da soli i propri limiti, per di più quando si sta dormendo.

Morale: come sempre, essendo comunque un soldato nella mia Guerra Eterna, prendo atto degli insegnamenti del mio inconscio, inteso in senso ampio, e tiro avanti, ho pur sempre altre dodici ore prima di addormentarmi e ricevere un’altra lezione.

Ciò cui riesco a non pensare da sveglio, mi torna indietro con gli interessi quando faccio visita a Morfeo.

Il fatto è che non vedo l’ora di avere un altro incubo rivelatore, o un altro sogno carico di sottintesi: un modo per trarre le conclusioni di ragionamenti che non mi accorgo nemmeno di fare.